“Pacific Rim: La rivolta” è il seguito del film del 2013 diretto da Guillermo Del Toro: nonostante non avesse riscosso grande successo negli USA, questo primo film aveva avuto un ottimo riscontro a livello internazionale, da cui il sequel. In effetti, nonostante la premessa da blockbuster duro e puro, cioè la contrapposizione tra mostri giganti alieni e robottoni ancora più grossi costruiti per difendere l’umanità, il film di Del Toro era piuttosto inaspettato a livello di trama, focalizzandosi sui personaggi alle prese con i loro demoni personali e realizzando un prodotto decisamente anomalo e più rivolto ai nerd che apprezzavano gli omaggi ai B-Movie anni ’50 e ’60 che ai fan di Michael Bay.
Premetto che io ho amato moltissimo l’originale Pacific Rim, e quando ho visto che avevano deciso di fare un sequel, diretto dall’esordiente Steven S. DeKnight, non ho potuto che essere allo stesso tempo elettrizzata e spaventata: felice perché non vedevo l’ora di ritrovare il mondo e i personaggi che mi erano tanto piaciuti e allo stesso tempo preoccupata che questo franchising venisse trasformato nell’ennesimo prodotto in serie ad alto tasso di effetti speciali e testosterone (tipo Transformers).
Già dal trailer si è partiti male: infatti qui non si vedevano altro che due giovani uomini alla guida di un Jaeger che prendeva a pugni un Kaiju in slow motion con intorno edifici che venivano demoliti in modo spettacolare.
Del resto i sequel sono sempre una copia sbiadita dell’originale e senza Del Toro alla guida, Pacific Rim si rivela… UNA FIGATA.
Ebbene sì, sono io la prima ad essere sorpresa: inaspettatamente, questo sequel funziona.
Certo, i personaggi del film originale sono spariti quasi tutti, e anziché le atmosfere cupe e apocalittiche di Guillermo Del Toro troviamo un film più adrenalinico e indirizzato a un pubblico mediamente più giovane; rispetto al caos genialoide del primo Pacific Rim è decisamente più convenzionale e calcolato, ma comunque divertente e ben calibrato.
Intendiamoci, è una tamarrata: ma una tamarrata fatta bene.
La trama è lineare e riprende l’archetipo dell’antieroe che cerca di staccarsi dall’ombra paterna per poi ritrovare il suo coraggio e la sua motivazione.
John Boyega (il Finn di Star Wars) interpreta Jake Pentecost, un protagonista carismatico e scanzonato, che funge sia da eroe che da comic relief; è il figlio di Stacker Pentecost (Idris Elba), e se proprio vogliamo fare una critica questa parentela è un po’ inutile, anche perché non si faceva cenno alla sua esistenza nel primo film. L’altro personaggio originale degno di nota è la quindicenne Amara Namani (Cailee Spaeny), a cui puoi dare la tua spazzatura di casa e con quella ti costruisce un Jaeger. Scott Eastwood ha due espressioni: con il casco e senza casco, e il suo personaggio è abbastanza dimenticabile.
In coerenza con il primo film, anche qui il compito di salvare il mondo non è lasciato come spesso accade agli americani, ma il cast internazionale mostra un’umanità finalmente coesa in cui tutti i continenti partecipano all’impresa, con una strizzata d’occhio alla potenza emergente della Cina.
Al contrario che nei blockbuster di Micheal Bay (scusate, io non lo posso vedere), le figure femminili non sono stereotipate o sessualizzate, ed è un piacere trovare all’opera sia la militare integerrima, che l’adolescente smanettona, che l’inflessibile capa d’azienda asiatica.
A metà del film poi, gli sceneggiatori hanno aggiunto un colpo di scena piuttosto coraggioso e molto ben motivato che a me è piaciuto tantissimo.
Se amate la fantascienza, i film d’azione e se vi è piaciuto il primo Pacific Rim, vi consiglio caldamente di dare una chance al seguito: non ne sarete delusi.
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