Recensione “Ready Player One”

“Ready Player One” è un film del 2017 diretto da Steven Spielberg, basato sull’omonimo libro di Ernest Cline.
Ho letto il libro qualche tempo fa, e, nonostante l’avessi trovato a tratti avvincente e divertente, non mi aveva convinta pienamente: la trama era un po’ ripetitiva e tutta la risoluzione dei problemi era basata su chi sapeva più informazioni inutili sulla cultura pop degli anni ’80, senza dover dare grande prova di valore o anche solo di senso critico.
Ero curiosa di vedere il film perché ultimamente mi è capitato spesso di vedere che persino da libri assolutamente pessimi (*coff* Cinquanta Sfumature di Grigio *coff *) dei bravi sceneggiatori e registi erano riusciti a tirare fuori dei film che tutto sommato avevano il loro perché.
Ebbene, il film di Spielberg ha tutti i problemi del libro, e in più è pure mortalmente noioso; è onestamente uno dei film più deludenti che abbia visto negli ultimi tempi (e mi sono pure sciroppata i Fantastici 4, che meriterebbe un post a parte).
Visivamente è spettacolare, lo concedo: la scena iniziale in cui il protagonista presenta OASIS, l’universo di realtà virtuale al centro della vicenda, lascia a bocca aperta… in effetti quasi tutte le scene ambientate su OASIS sono talmente veloci, piene di azione e di dettagli da essere faticose da seguire, al punto che lo spettatore non può fare altro che subire passivamente l’assalto di pixel che aggredisce la sua retina.
La trama è completamente diversa da quella del libro, cosa che è abbastanza comprensibile in quanto sarebbe stato un po’ noioso mostrare quasi esclusivamente qualcuno che gioca a videogiochi fuori moda oppure recita battute di film anni ’80; purtroppo la storia alternativa che è stata inserita è altrettanto pipposa, solo con più azione.
Tutto ciò che era interessante nel libro è stato bellamente eliminato: il modo fortuito in cui il protagonista riesce a risolvere il primo enigma, basato sul suo essere uno studente ed essere in grado di tradurre Ludus con “gioco” era una delle parti più carine e convincenti del libro, ed è stata semplicemente sostituita da una gara supermegaadrenalinica in auto (seriously?) in cui, dopo aver ascoltato una vecchia registrazione di Halliday, Wade/Parzival capisce che deve andare indietro anziché avanti, e bon, primo indovinello risolto (ri-seriously? Davvero in cinque anni nessuno aveva pensato di fare tre metri in retromarcia?! Ma dai!).
Un’altra cosa che ho trovato francamente un po’ sciocca è che Wade riesce a risolvere alcuni problemi grazie a una conoscenza morbosa della vita privata di questo Halliday, creatore del videogioco, elemento che era presente anche nel libro ma in modo leggermente diverso: anziché studiare le sue passioni per capire la sua mentalità e dove avrebbe potuto nascondere gli indizi, qui il protagonista deve interessarsi ai suoi appuntamenti andati male e addirittura risolvere in modo postumo i suoi rimpianti amorosi.
Peraltro la presentazione delle donne era abbastanza problematica già nel libro di Ernest Cline, dove l’unico personaggio femminile degno di nota era il love interest da vincere come trofeo; il film riesce nella difficile impresa di essere ANCORA più misogino e Steven Spielberg dimostra ancora una volta di non sapere assolutamente cosa farsene delle donne nei film se non farle salvare e farle innamorare del protagonista.
Art3mis viene immediatamente presentata come una gamer migliore del protagonista e con una TristeStoria (TM) che dovrebbe renderla vagamente più umana e credibile; ma quando appare nella vita reale (ovviamente magra e bellissima, proprio come lui l’aveva sempre immaginata) subito si fa da parte confermando al protagonista (glielo dice proprio) che sì, deve essere lui a vincere, perché solo lui è il vero eroe ad essere in grado di farlo. Da quel punto in poi non fa altro che sacrificarsi e dover essere salvata. Punto.
Viene lasciato intendere che se Halliday ai tempi avesse avuto il coraggio di provarci con Kira, l’epilogo sarebbe stato diverso (quindi lei non ha voce in capitolo praticamente, dipende solo dalla “bravura” a baccagliare degli uomini che la corteggiano).
Altra nota dolente è il cattivo: con tutti i difetti del libro di Ernest Cline, almeno lì il villain era trattato con rispetto, come un vero avversario, qualcuno che il protagonista avrebbe persino potuto ammirare se non fosse impiegato dalla fazione che rappresenta tutto ciò che lui disprezza, uno che in molti casi riesce a superarlo e ad essere più astuto e competente di lui.
Il Nolan Sorrento (uno sprecatissimo Ben Mendelsohn) del film è una macchietta che non fa altro che farsi figuracce e viene malmenato in modo ridicolo e infine fermato e sbeffeggiato tipo la signorina Trinciabue, in quelle che ci si aspetta siano le risate del pubblico.
I giapponesi che nel libro non fanno altro che parlare di “onore” in modo molto stereotipato qui non fanno neanche quello, avranno tre battute in croce e servono soltanto a dotare il protagonista di una “banda” in modo che Spielberg riesca a fare l’ennesimo film dove dei ragazzini celebrano il potere dell’amicizia combattendo gli adulti avidi e cattivi.
Avrei ancora un milione di critiche da fare su praticamente ogni scena, ma la recensione risulterebbe lunghissima, quindi mi sforzo di trovare qualche lato positivo.
La scena ambientata nell’hotel di Shining era divertente e la colonna sonora ha delle bellissime canzoni. Il personaggio di Halliday è ben interpretato. Onestamente per quanto mi scervelli non riesco a trovare altro.
C’è Simon Pegg, ma non fa praticamente nulla. Che spreco.

Qualcun altro l’ha visto o ha letto il libro? Cosa ne avete pensato? Parliamone nei commenti.

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