Recensione del romanzo “2001-Odissea nello spazio” di Arthur C. Clarke

“2001- Odissea nello spazio” è un romanzo di fantascienza scritto da Arthur C. Clarke nel 1968, a seguito di un contatto con Stanley Kubrick che voleva una sceneggiatura originale per un film.
Credo che sia sempre molto difficile approcciarsi per la prima volta a opere che sono diventati veri e propri mostri sacri, poiché le reazioni sono normalmente due: o ci si convince che i capolavori del passato siano inimitabili oppure mi spiace dirlo, è il mio caso si resta delusi.
Il romanzo è diviso in sei macro-capitoli, dei quali i primi due sono una sorta di lunghissimo prologo. Il primo è quello che all’apparenza sembra più slegato dagli altri, in quanto apre la narrazione nel Pleistocene e in Africa, dove il capo di una tribù di ominidi, Guarda-La-Luna, entra in contatto con un misterioso monolite alto tre metri, che inizia a “insegnargli”  come migliorare ed evolvere il suo stile di vita, salvo poi sparire nel nulla.
Il secondo capitolo racconta invece del dottor Heywood Floyd che, alla fine degli anni Novanta, viene chiamato per fare delle rilevazioni sul cratere Tycho: sul corpo celeste infatti è stato trovato un monolite che, non appena entra in contatto con la luce solare, si aziona e sembra riattivarsi.
È dal terzo capitolo in avanti che inizia la narrazione principale, che vede protagonista David Bowman, comandante dell’astronave Discovery: l’uomo, coadiuvato dal primo ufficiale Frank Poole e da una IA chiamata “HAL 9000”, ha il compito di recarsi su Saturno per un’esplorazione, per poi tornare in stato di ibernazione fino all’arrivo di una nuova astronave. Gran parte della squadra che lo accompagna, infatti, si trova nel medesimo stato e il compito di regolare questo sonno è lasciato alla intelligenza artificiale. HAL 9000, tuttavia, inizia a comportarsi in modo strano, innescando una catena di eventi che porteranno poi la scoperta di misteriosi segreti legati alla missione.
Il romanzo è stato una pietra miliare della fantascienza, forse una delle opere più famose del genere, soprattutto grazie al successo del film: sicuramente ci sono degli elementi veramente geniali e che sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo, primo tra tutti il personaggio di HAL 9000. Il libro, scritto alla fine degli anni Sessanta, analizza in modo peculiare una delle tematiche più diffuse nella fantascienza, cioè il modo di ragionare dei robot, il loro modo di reagire alle difficoltà e all’inaspettato: HAL 9000, infatti, si trova davanti a un dilemma difficile per una intelligenza artificiale, cioè il contrasto di ordini e, quindi, il conflitto di programmazione. A differenza di molti altri romanzi che esasperano il contrasto tra intelligenza umana e artificiale, Clarke sceglie invece una suggestiva “umanizzazione” del conflitto del personaggio, creando quella che nel libro stesso viene definita “psicologia”. HAL 9000 appare infatti come l’unico vero personaggio a tutto tondo con una psiche, un’evoluzione e un’analisi veramente sopraffine.
 
“…Sapeva abbastanza bene che ogni uomo, in determinate circostanze, poteva essere reso disumano dal panico. Se questo poteva accadere a un uomo, poteva accadere anche a Hal.”
 
Clarke non è stato geniale solo per questo però: la sua conoscenza approfondita dell’astronomia e della tecnologia rendono il libro molto verosimile, nonostante sia stato scritto molti decenni fa, prima ancora che l’uomo arrivasse sulla Luna. L’idea di alieni di natura così diversa dalla nostra è molto azzardata e, eppure, descritta in modo molto chiaro e credibile: lo stesso concetto di materia viene trasceso nella narrazione e questo è veramente molto suggestivo.
 
Nonostante tutti questi aspetti, però, non posso certo dire di avere amato questo libro. Il ritmo è veramente molto lento, cosa che rende la lettura difficile: più di metà libro è occupato da quello che è a tutti gli effetti un prologo, bisogna aspettare di arrivare al sessanta per cento del libro per trovare un minimo di azione. La motivazione appare evidente nella sua genesi: il testo era nato contemporaneamente alla sceneggiatura, per cui le lunghissime e talvolta inutili descrizioni dell’ambiente erano funzionali e meravigliose visivamente sul grande schermo, ma faticose nel romanzo.
I personaggi, tolto HAL 9000, sono piatti, differiscono solo per il nome. David Bowman, protagonista effettivo, è un individuo razionale, sempre calmo e tranquillo di fronte ad ogni problema e sempre ragionevole di fronte a tutto, anche alla eventualità della propria imminente morte. Nulla di lui è “vero”, è semplicemente un veicolo per permettere all’autore di fare gli spiegoni scientifici e di descrivere, asetticamente, ciò che sta capitando. Ancora una volta questo sarebbe meno grave in un film, ma in un libro si nota: alla fine del romanzo, il lettore ha avuto una perfetta e approfondita descrizione dell’ambiente scientifico e astronomico della narrazione, ma non si è avvicinato empaticamente in alcun modo ai personaggi. Bowman appare così come un perfetto protagonista di un documentario, ma come un indefinito personaggio di un romanzo.
 
Un altro elemento che ho trovato strano era la totale assenza di donne: le uniche che vediamo sono le mamme a casa che singhiozzano o la hostess, sono assolutamente di contorno nella narrazione e nessuna di loro è un personaggio che merita un nome. Gli unici nomi femminili che incontriamo sono riferiti ai veicoli:
 
“I baccelli spaziali non erano i mezzi di trasporto più eleganti escogitati dall’uomo, ma non se ne poteva fare a meno per i lavori di costruzione e mantenimento nel vuoto. Venivano di solito battezzati con nomi femminili, forse riconoscendo il fatto che la loro personalità era a volte un po’ imprevedibile. I tre della Discovery si chiamavano Anna, Betty e Giara.”
 
La battuta simpaticona sessista è l’unico accenno che viene fatto al resto del cinquanta per cento della popolazione umana.  Dapprima non ci ho dato grande peso, in fondo il libro è del 1968, mi sono detta. Poi però mi sono ricordata che “Star Trek” era del 1966 e che, se proprio vogliamo dare la colpa al “passato”, “La Gerusalemme liberata”, opera meravigliosa ricca di personaggi femminili forti, era del 1581. Questo mi ha dato particolarmente fastidio perché è proprio per questi elementi che la fantascienza è stata relegata per anni a “prodotto scritto da uomini per uomini” e, ancora adesso, continua ad essere considerato un genere di nicchia per pochi maschi nerd.
 
In conclusione, il romanzo ha elementi geniali e veramente suggestivi, ma il ritmo eccessivamente lento e didascalico ha reso la mia lettura faticosa e difficile: per quanto abbia apprezzato molti spunti, ho trovato il testo invecchiato molto nello stile e nella costruzione dei personaggi e, anche se è un’opinione impopolare, non mi sento di consigliarlo come lettura per approcciarsi alla fantascienza.
2001

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