“L’ultimo Khama” è un romanzo del 2013 scritto da Stefano Andrea Noventa ed edito da Plesio.
Ho acquistato questa insolita lettura su consiglio di un’amica, ma non avevo esattamente compreso di che tipo di testo si trattasse: il romanzo è di un genere molto difficile da catalogare, un misto tra fantasy e fantascienza, con influenze marcate di metafisica.
La storia è ambientata in un mondo molto particolare, difficilmente collocabile cronologicamente rispetto al nostro, infatti non è chiaro se possa essere un tempo passato, un tempo futuro o semplicemente un altro universo. In questo mondo vi sono delle divinità che sorreggono il tutto, “coesistendo” con le persone comuni; la cosa più sorprendente è che gli dei non sono spiriti nel senso classico, bensì macchine, tecnologie create dall’uomo per regolare la loro vita e controllarla. Le persone non sono semplici esseri passivi però: tra loro vi sono degli interpreti degli elementi, coloro in grado di farsi portavoci di tali volontà, e sono i cinque personaggi più importanti che vediamo.
La protagonista, Belaren, è l’interprete dell’elemento acqua: costretta ad assistere alla morte della madre per dare alla luce la sua sorellina, Miya, l’interpete della vita, si ritrova a farle da guida e da sostegno. Al loro fianco una figura oscura, Dobrak, interprete della morte, legato indissolubilmente a Miya; completano questo equilibrio Ghan, interprete dell’elemento terra, e Jehinn, interprete dell’aria. Quest’ultima è un’Eterea, una creatura simile alle macchine, ambasciatrice di tali divinità e portavoce dei loro bisogni.
Il libro di per sé non è molto lungo, ma ho trovato la lettura difficile, poiché complesse sono le tematiche narrate. Il romanzo non è un semplice fantasy, ma ribalta l’idea stessa di divinità, portando l’analisi su un piano diverso, quasi fantascientifico. Questi dei non sono solo spirito o solo tecnologia, ma sono arrivati ad un punto in cui non è praticamente più possibile distinguere il concetto dalla materia: questo tema si esplica bene in quella che l’autore definisce “L’Architettura”, che mi ha ricordato un po’ Matrix. Il concetto di divinità è oggetto di discussione in tutto il romanzo e ho trovato che questa fosse la parte meglio riuscita: sebbene mi abbia ricordato in parte Neon Genesis Evangelion e in parte i Razziatori di Mass Effect, gli dei hanno natura strana, sono in parte macchine e in parte “concetto”, ma non per questo sono dei villain. Non sono nemmeno dei salvatori e, forse, non sono nemmeno necessari: hanno creato un equilibrio che ha permesso la vita? Sono solo creazioni umane? Servono davvero? Queste sono domande che il lettore si pone durante la storia e, in buona parte, non trovano volutamente risposta.
Il Khama, il rituale che i protagonisti devono compiere, sovvertirà per sempre il loro mondo e sembra essere il punto focale della storia. Una cosa che ho apprezzato, però, è che non sia proprio così: i personaggi sono veri e a tutto tondo, approfonditi ampiamente. Il loro cammino sembra più interiore che effettivo e tutti trovano una loro collocazione nel rituale che è meno pratica e più concettuale: ho trovato che in questo libro il topòs del viaggio fosse reso molto bene, a trecentosessanta gradi.
Il romanzo è complesso, difficile da seguire e richiede una grande concentrazione: non mi piace usare questa espressione, ma davvero non è un testo facile. Detto questo, mi ha veramente colpito per la sua originalità: erano anni che non leggevo una trama e una realizzazione così insolite. Persino il genere non è quello che ti aspetti; non lo sono i personaggi e non lo è l’ambientazione. Leggo molti romanzi fantasy e spesso mi sono trovata di fronte alle ambientazioni “classiche”, quasi date per scontate; per questo sono rimasta piacevolmente stupita da questa ambientazione originale e strana, inteso in senso buono.
In conclusione, lo consiglio a chi cerca un modo completamente diverso di concepire il fantasy e il sci-fi, e a chi non ha paura di letture molto complesse e capitoli carichi di informazioni. Non è una lettura leggera, ma per me ne vale la pena.
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