Perché “Echi in tempesta” di Christelle Dabos non mi ha convinto pienamente

“Echi in tempesta” è il quarto e, apparentemente, ultimo volume della saga “L’Attraversaspecchi” iniziata con “Fidanzati dell’inverno”, ed edita in Italia da E/O.

La recensione del precedente volume la trovate QUI

Ofelia e Thorn sono finalmente riuniti e si nascondono su Babel, dove Thorn continua a mantenere la sua identità segreta; tuttavia la loro missione di rintracciare Eulalia Diyoh e l’Altro è più importante che mai, in quanto sulle Arche continuano a verificarsi catastrofici crolli. Quando uno di questi devasta Babel, per non essere espulsa e proseguire la propria indagine, Ofelia non ha altra scelta se non farsi internare all’Osservatorio delle Deviazioni, una sorta di ospedale psichiatrico sperimentale in cui la protagonista esplorerà il misterioso legame che la unisce alla creatrice del mondo come lei lo conosce.

Se avete amato i precedenti volumi, in questo finale troverete molto di quello che avete apprezzato: il mondo delle Arche della Dabos è sempre variegato e immaginifico, e in questo volume esploriamo un risvolto inaspettato di questo universo, cioè il Rovescio (una specie di Sottosopra di Stranger Things in versione steampunk).

Inoltre finalmente troviamo le risposte alle domande che ci siamo posti sin dal primo volume, che vanno a scavare nel passato di Ofelia e all’origine delle sue peculiarità.

Tuttavia devo ammettere che, nonostante il finale spieghi in modo abbastanza soddisfacente i nodi di trama salienti, questo capitolo della saga risulta decisamente più frettoloso degli altri.

Il grosso dei personaggi che vediamo ricomparire l’abbiamo trovato nel terzo volume e sull’arca di Babel: tutti quelli che per i primi due volumi avevamo imparato a conoscere e amare non sono presenti che in minima parte e spesso vengono fatti fuori in tre righe senza troppi complimenti.

L’ultima parte del libro infatti presenta una brusca accelerazione del ritmo che fa sì che, dopo uno stile decisamente più rilassato, tutto succeda in modo piuttosto frenetico.

La Dabos aveva messo molta carne al fuoco (una bambina con il dono della proiezione astrale! La concubina di uno spirito immortale senza memoria! Un’arca perduta e tenuta nascosta per secoli! Una stirpe decimata in grado di vedere attraverso i poteri delle famiglie!), ma molti di questi spunti si sono rivelati soltanto delle idee carine che non sono state sviluppate ulteriormente, anzi vengono tirati fuori proprio per non dire che sono stati dimenticati e poi risolti in quattro e quattr’otto. La zia Rosaline, fedele compagna di Ofelia in tanti viaggi, compare in un unico capitolo (e se non erro in un’unica frase) e ad altri personaggi come Archibald, Berenilde, Renard e Gaela vengono dedicate appena una manciata di pagine.

Anche la caratterizzazione dei personaggi comprensibilmente ne risente: non c’è tempo per esplorare la personalità di nessuno dei personaggi se non la protagonista e Thorn, che, va detto, ha il merito di uscire sempre come un love interest non banale e credibile.

Ho infatti apprezzato molto che nonostante la storia d’amore fosse una parte importante della saga, alla fine Ofelia avesse un suo arco narrativo che non dipendesse dal marito, e che molta della sua storia fosse di scoperta ed esplorazione individuale.

Ammetto che questo libro mi è piaciuto meno dei precedenti e il finale mi ha un po’ lasciato l’amaro in bocca; non sono nemmeno riuscita a commuovermi per i molti sacrifici, tanto questi erano affrettati.

Consiglio comunque la lettura del libro a tutti quelli che hanno letto i precedenti, per trovare le risposte ai tanti interrogativi che erano stati posti nel corso della saga.

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