“Il Grido della Rosa” è il secondo romanzo della serie di Alice Basso iniziata con “Il Morso della Vipera”, edito da Garzanti.
Nella Torino del 1935, Anita Bo lavora come dattilografa per la rivista “Saturnalia”, che pubblica traduzioni di racconti gialli americani insieme a storie originali di stampo fascista.
Il suo matrimonio con l’irreprensibile fascista Corrado è imminente, ma Anita è ancora riluttantemente attratta dal direttore di Saturnalia Sebastiano Satta Ascona, con cui condivide sia la passione per i gialli hard boiled che la segreta insofferenza nei confronti del regime; proprio per denunciare un caso di cronaca che non avrebbe mai avuto giustizia, i due hanno scritto un racconto di denuncia spacciandolo per la traduzione di un fittizio autore americano.
I due si ritroveranno ad indagare, e scrivere, nuovamente quando Gioia, una ragazza madre sordomuta, verrà ritrovata morta in circostanze quantomai sospette nei pressi della villa di un nobile locale che aveva deciso di adottare suo figlio.
Nelle discussioni tra lettori e scrittori sembra essere opinione comune che il secondo libro di una serie sia il più difficile da apprezzare e per cui è difficile eguagliare l’entusiasmo della prima uscita: io invece sono del parere opposto, e i secondi libri mi piacciono quasi sempre di più dei primi, proprio perché, se il capostipite di una serie serve un po’ a presentare i personaggi e disporre i pezzi sulla scacchiera, nel secondo è quando si inizia veramente a giocare.
“Il Grido della Rosa” secondo me ne è un perfetto esempio: accanto ai personaggi che già conosciamo e per cui basta uno scambio di battute per ricordarci la loro personalità (Anita, la bella finta svampita, la mentore Candida che fuma come una ciminiera, l’intelligentissima ma meno appariscente Clara eccetera) appaiono nuove figure, altrettanto memorabili, e l’autrice ha l’occasione di esplorare trame più intricate e mostrarci lati inediti della Torino degli anni ’30.
Il romanzo mostra il lato oscuro dell’ONMI, l’Opera Nazionale della Maternità e Infanzia fondata dal fascismo allo scopo di tutelare le madri e i bambini in difficoltà: nonostante il nobile proposito originario di eliminare la mortalità infantile e perinatale attraverso la diffusione di norme igieniche e assistenza sanitaria, presto l’ente diventa un modo per promuovere la natalità a tutti i costi e riportare la figura femminile all’interno della famiglia patriarcale, senza fornire alcuna tutela da maltrattamenti o violenza, ma anzi incoraggiando il ruolo del padre/padrone come unica autorità familiare. Inoltre, essendo l’ente benefico e parastatale, gestito da patroni e patronesse dell’élite locale, le donne in difficoltà non hanno diritti ma sono soggette al capriccio dei benefattori, sotto il loro completo potere e costantemente umiliate per la condotta disdicevole che le ha portate alla maternità.
E così la vittima Gioia e l’amica Diana, una delle figure a mio parere più incisive del romanzo, che aiuterà Anita & co nell’indagine, incarnano due figure non gradite alla politica del regime, in quanto entrambe al di fuori dell’ordinamento sociale stabilito e una di loro persino disabile. Ho apprezzato molto il fatto che Gioia, nonostante fosse descritta soprattutto dai racconti degli altri personaggi, apparisse come un personaggio ben delineato e descritto senza pregiudizio o condiscendenza.
Accanto a questa ambientazione, vengono mostrate altre donne “sconvenienti” e ai margini della società: la coraggiosa levatrice Ernestina, ma soprattutto le donne che gravitano intorno al mondo della prostituzione. Queste vengono mostrate in tutte le loro declinazioni: dalla tenutaria del bordello Rosa (la “prima delle ultime”, ma pur sempre soggetta alla prepotenza dei più potenti), le prostitute nel picco della loro “carriera” e, per ultima, la figura della Spina, ormai anziana, senza possibilità di esercitare legalmente o di avere qualche forma di aiuto per sopravvivere. Quest’ultima, in particolare, è protagonista di una delle scene più amare e dure del romanzo, in aperto contrasto con i racconti edulcorati e nostalgici degli ex- avventori pre-legge Merlin.
Intorno a questa vicenda, troviamo, come è nello stile di Alice Basso, tante curiosità sul mondo editoriale, in particolare sui racconti pulp degli anni 30, e delle sue protagoniste poco conosciute, compresa una detective ex donna cannone affiancata dall’affascinante assistente, un duo che risulta originale anche ai lettori odierni.
Quello che ne risulta è un romanzo al femminile quasi corale che, nonostante il ritmo sempre incalzante e lo stile ironico, mostra la precaria condizione della donna sotto il regime fascista, tra mariti onnipotenti da una parte e una vita di stenti e vergogna sociale dall’altra.
Un dilemma che la protagonista Anita, vicina al matrimonio con l’ineccepibile quanto poco entusiasmante Corrado ma attratta da Sebastiano, a sua volta fidanzato, sembra vivere sulla sua pelle; al tempo stesso, il libro sembra suggerire, nell’amicizia e nella solidarietà tra amiche e complici, l’esistenza di tante famiglie spirituali che vanno oltre quelle riconosciute dalla società.
In conclusione, consiglio questo romanzo ovviamente a tutti i fan di Alice Basso ancora orfani di Vani Sarca, ma anche a chi vuole approfondire un lato poco conosciuto dell’Italia fascista e a chi si vuole ricredere sulla cattiva fama dei secondi libri di una serie.
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