Recensione di “Yohnna e le lacrime di Israfil” di Andreina Grieco

“Yohnna e le lacrime di Israfil” è il secondo e conclusivo volume della dilogia fantasy scritta da Andreina Grieco e pubblicata dalla casa editrice Edikit.

Vi avevamo già parlato del primo libro qui:

Recensione Yohnna e il baluardo dei deserti

Videorecensione Yohnna e il baluardo dei deserti

Il secondo volume riprende diversi anni dopo gli eventi accaduti nel primo, per cui ora troviamo un Yohnna più adulto (seppur ancora giovane nell’apparenza e nell’aspetto), inserito nella comunità della piccola cittadina di Qasama come arrotino e lontano dal clamore della grande città di Damasco. Tuttavia, il suo magico e pericoloso amico/nemico Jinn, Horèb, ancora lo tormenta per vedere esaurito il terzo desiderio, rendendo l’esistenza del protagonista incerta e sostanzialmente priva della possibilità di vivere una vita normale.

Nonostante le aspettative, però, non sono le insolite conoscenze di Yohnna a fare precipitare la situazione, bensì un pellegrinaggio verso Abr’al-nabìdh da parte dei suoi conoscenti, la famiglia del suo giovane apprendista e la di lui sorella (innamorata di Yohnna). Questi, infatti, hanno deciso di recarsi da una fantomatica guaritrice che, pur in possesso di abilità straordinarie, si rivela più pericolosa che salvifica.

Il secondo romanzo di Andreina Grieco conserva l’ambientazione arabeggiante e misteriosa della Siria, così come la compenetrazione fortissima tra elementi magici, sacri e horror. A differenza del primo, però, l’atmosfera da mille e una notte viene sostituita da una più cupa, oscura e talvolta terrificante. Violenza, orrore e scempio dei corpi e della vita stessa sono le armi con cui combatte un nemico che farà impallidire persino Horèb, che nel primo sembrava invincibile e privo di scrupoli.

“Yohnna e il baluardo dei deserti” si caratterizzava per una struttura a duetto, in cui Horèb e Yohnna si scontravano/alleavano in più riprese, e i  loro dialoghi botta e risposta accompagnavano il lettore in tutta la narrazione; in questo romanzo troviamo invece nuovi personaggi e molte più storyline che si intrecciano, senza tralasciare la crescita umana del protagonista e la sua rinascita interiore. I dialoghi tra Yohnna e Horèb sono molti meno ma incisivi, e diventano lo strumento che l’autrice utilizza per frapporre due visioni diametralmente opposte sull’etica e sul loro mondo.

I personaggi femminili, poco presenti nel primo, qui sono la maggior parte e rubano la scena a entrambi, in modo diverso. L’elemento che ho trovato più sorprendente, però, è quello del ruolo dell’antagonista, lontano da molti cliché: il male qui è incarnato da una persona con il dono più incredibile e positivo che ci possa essere, la cura. Il lettore si troverà davanti alla contrapposizione tra quella che dovrebbe essere una magia bianca e la crudeltà e la possibilità di usare speranza e amore per fare del male e manipolare gli altri: un elemento non molto presente nei fantasy di stampo classico e magico e che merita una menzione particolare.

In conclusione, una conclusione molto dark e piena di azione che sarà apprezzata dai lettori del primo volume.

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